Ringraziamo la Treccani ed il giornalista Nicola Boccola che hanno inserito il link al nostro sito nell’articolo del 7 settembre 2017 che qui riportiamo:

treccani

Immagina di trovarti nel parco di una grande città come Torino, e incontrare un gruppo di persone disposto in due file che grida oh oh gettando le braccia al cielo e ah ah buttandole verso la terra, per poi essere attraversati da una risata collettiva e fulminea come una scossa elettrica. Si tratta della risata Calcutta, la pratica più vigorosa del Hasya Yoga o yoga della risata: deriva delle antiche tecniche di respirazione pranayama, modificate con l’inclusione degli effetti benefici del riso. Nella psicoterapia cognitivo-comportamentale si dice che si scappa perché si ha paura, e che si ha paura perché si scappa: allo stesso modo una risata inizialmente forzata può condurre allo stato di benessere che solitamente precede quella autentica. Questo nella filosofia di Matan Kataria, che avviò la sua pratica nel 1995 con un gruppo di cinque persone nel parco di Mumbai, per poi esportare il metodo in sessantacinque Paesi di tutto il mondo tra cui l’Italia (www.yogadellarisata.it), dove è spesso ospite.

Non sono più i tempi del risus abundat in ore stultorum, come afferma il monaco cieco Jorge di Burgos nel romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco. «Cristo non rideva. Il riso è fonte di dubbio»; e così per secoli si è considerato indegno, dissacrante, pericoloso quel movimento di viscere. E forse i sospetti degli esponenti del cristianesimo medievale non erano così campati in aria. La natura sovversiva e rivoluzionaria della risata irrompe nel motto “una risata vi seppellirà”, grido di battaglia di anarchici prima e contestatori del Sessantotto poi: chi ride è libero, non ha paura. E nell’epoca in cui essere allegri è diventato quasi un dovere da esibire sui social network, in ossequio a un’immagine falsa e vincente, ridere rimane un atto primitivo, in comune con scimmie e ratti – con buona pace del filosofo Friedrich Nietzsche, per cui solo la nostra specie sarebbe capace di farlo. Secondo il primatologo Jan van Hoof la filogenesi della risata sarebbe violenta e legata alla lotta per la sopravvivenza. Un segnale vocale per comunicare agli altri membri del gruppo una situazione di passato pericolo e anche un grido di trionfo o di scherno per il nemico catturato: «una delle prime radici del comico e del ridicolo sarebbe lo sguardo di gioia maligna». E d’altronde Giacomo Leopardi scriveva: «il ridere concilia stima e rispetto anche dagl’ignoti, tira a se l’attenzione di tutti i circostanti, e dà fra questi una sorte di superiorità».

I moderni neurobiologi sono d’accordo sulla fenomenologia della risata, a cominciare dalle sue caratteristiche comportamentali e contestuali: più contagiosa di una patologia infettiva o una fake news, legata a solletico, gioco e in generale interazione – in termini temporali si ride trenta volte di più in compagnia che da soli. Se ne distinguono due tipi: quella sociale e volontaria, percepita alla stregua di una vocalizzazione e che dà luogo a un processo di costruzione di significato (“Perché sta ridendo?” si pensa dell’altro). E la risata involontaria, quella che dà luogo a veri e propri versi, percepiti come suoni inesistenti in qualsiasi altro contesto. I bambini fino a sei anni non possiedono ancora gli strumenti cognitivi per distinguere le due risate e si lasciano volentieri coinvolgere; col tempo aumenta la capacità di discriminare le risate incontrollate, ma al tempo stesso decresce la capacità di farsene coinvolgere. Ne siamo ancora capaci? Lo si può verificare con la Laughter Chain, la catena di risate creata per scopi inizialmente pubblicitari da una nota società di comunicazione: il progetto, ora concluso ma fonte di ispirazione per gli scienziati, consisteva nel filmarsi durante la visione del video di un piccolo bambino dalla risata franca; i video migliori sono stati inseriti in coda a quello originale, creando un montaggio inspiegabilmente esilarante al termine del quale ci si sente liberati e più in equilibrio.

(Link dell’articolo originale)

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